Articoli su Giovanni Papini

2006


Marco Attucci e Luigi Corsetti

Papini, Montale: un’occasione perduta *

Pubblicato in: Cartevive, anno XVII, num. 2, pp. 95-104
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Data: dicembre 2006



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   In una lettera a Luigi Russo, del 5 gennaio 1957, cosi Eugenio Montale si esprimeva riguardo alla sua attività di critico letterario: «Sono portato a cercare nell'opera d'arte i caratteri che la rendono nuova, originale, ma non confondo, come faceva Tilgher, lo "spirito del tempo", lo Zeitgeist, con l'ossequio servile alle varie mode. In definitiva credo che il vero artista è sempre attuale, sempre originale, sempre engagé anche se non sa di esserlo» 1. Considerando tale predisposizione, così rara nell'Italia di quel tempo e di sempre, non stupisce la particolare attenzione riservata da Montale a Papini negli anni che immediatamente ne precedono e ne seguono la morte, quando lo scrittore fiorentino era ancora popolarissimo ma considerato quanto meno inattuale dalla critica più raffinata, ufficiale e militante.
   Confermando così la sua natura dilettante di critico eslege, Montale pubblicò sul "Corriere della Sera", dal gennaio 1955 al dicembre 1957, cinque articoli dedicati a Papini; e fu lui, significativamente, l'anonimo estensore di un breve ma intenso testo augurale, apparso in occasione del settantacinquesimo compleanno dello scrittore.
   «Dopo aver vissuto vent'anni a un tiro di schioppo» 2, pretestuosamente divisi soltanto da un salto generazionale che li rendeva figure emblematiche di un differente '900, i due intellettuali si erano incontrati per la prima volta in un giorno imprecisato dell'estate del '53, in una pineta dalle parti del Cinquale: pur nella sua brevità l'incontro rivelò correnti di simpatia. Fu in quell'occasione che Montale 'riconobbe' Papini: lo scrittore che tanto aveva «apprezzato per il Crepuscolo dei filosofi, per l'Uomo finito», l'araldo che, dalle pagine de "La Voce" e di "Lacerba", aveva «svegliato alla vita delle idee» 3 generazioni dì giovani, combaciava inaspettatamente con l'uomo che gli era


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dinanzi, e allo stesso tempo non era disgiunto dalla figura del convertito, dal cattolico militante, dal brillante e temuto letterato. Quello che la conoscenza diretta gli rivelava era il Papini più vero «che lega insieme le sue varie fasi e maniere, il Papini per il quale non si può più parlare di un prima o di un dopo: il Papini che , in un senso molto alto, vorremmo dire ingenuo, fiabesco, infantile» 4: il Papini inguaribilmente poeta, un romantico, naturalmente incapace d'essere scrittore «di tutto riposo».
   Fu con quest'uomo, dall'animo inquieto e insonne, già provato dalla malattia, che Montale iniziò un dialogo rimasto interrotto dopo quell'incontro; un dialogo proseguito idealmente nella serie di articoli che di lì a poco fece seguire sulle pagine del "Corriere"; a segnalare quasi la necessità del confronto con un Papini sentito segretamente affine, non foss'altro per quell'innato ribellismo solo apparentemente quietato nell'ordine borghese o per quella comune debolezza sentimentale che rendeva armata la naturale dolcezza, ma non occultava del tutto la domanda d'amore.
   Fra gli articoli dedicati da Montale a Papini, resta memorabile il necrologio apparso sul "Corriere d'informazione" del 9-1O luglio 1956 con il titolo: Papini. Un italiano antico nel mondo moderno. Un pezzo che avrebbe potuto indicare, fin da allora, proficui percorsi alla critica papiniana, ma che, per ragioni diverse, doveva rimanere pressoché ignorato. Montale vi segnala e supera la dicotomia di un Papini avanti e dopo la conversione, mostrandone persistenze e continuità, anticipando la necessità, apparsa solo in questi ultimi anni evidente, di guardare a Papini nella sua interezza.
   A contribuire certamente alla sorte poco fortunata dell'articolo fu in primo luogo la sede originale della pubblicazione. II "Corriere d'informazione", la testata che al lunedì sostituiva il "Corriere della Sera" nelle edicole, era solito uscire in due edizioni: pomeridiana e notturna. Il necrologio firmato da Montale fu pubblicato nell'edizione della notte, quella a più bassa tiratura e di diffusione più limitata rispetto all'edizione del pomeriggio; come abbiamo appurato da un circoscritto ma significativo riscontro sulle collezioni presenti nelle emeroteche, dov'è quasi sempre presente l'edizione pomeridiana e regolarmente assente quella notturna.


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Giovanni Papini in un'immagine dell'aprile 1950
(Foto Donazione Giuliano Prezzolini. Fondo Prezzolini. Lugano).


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   A testimoniare la scarsa recezione del necrologio è la sua mancata inclusione nel volume miscellaneo Papini vivo, edito da Vallecchi nel 1957, raccolta di testi di autori vicini in vario modo a Papini, dove anche Montale è presente ma con la recensione al volume Concerto fantastico, pubblicata sul "Corriere della Sera" il 19 gennaio 1955. Negli anni che seguono il testo non risulta citato nelle bibliografie di critica papiniana, neppure in quella presente nel 'Meridiano' dedicato allo scrittore fiorentino nel 1977.
   Bisognerà attendere il centenario della nascita di Papini perché l'articolo venga riscoperto. Il necrologio firmato da Montale viene infatti ripubblicato sul "Corriere della Sera" il 9 gennaio 1981, in una pagina memorabile, sotto il titolo unificante Il «caso Papini»: che cosa resta dell'opera dello scrittore fiorentino a 100 anni dalla nascita, sono presenti anche un lungo ricordo del quasi centenario Prezzolini e un articolo di Carlo Bo. Reso di nuovo visibile, sia pur nella sede effimera di un quotidiano, il testo viene finalmente notato: Francesco Mattesini lo cita, sia pur marginalmente, nel suo intervento al convegno di studi tenuto a Firenze, nel febbraio 1982 5; Luciano Gino Viale, sacerdote letterato, lo inserisce nel 1981, in una raccolta antologica di articoli dedicati a Papini, già pubblicata nel 1976: Papini sempre più vivo e più nostro, mutandone significativamente il titolo in Eugenio Montale per Giovanni Papini 6. La pubblicazione, edita da una piccola casa editrice, ha però una limitatissima diffusione: Un italiano antico nel mondo moderno resta così ancora un testo da cercare nelle emeroteche.
   L'occasione per una più vasta diffusione e definitiva fruibilità dell'articolo sembra giunta nel 1996 con la pubblicazione nei 'Meridiani' Mondadori di tutta la produzione giornalistica di Montale. In realtà, per ironia della sorte, il necrologio di Papini viene definitivamente seppellito sotto il peso dell'autorevolezza della prestigiosa collana editoriale. Accade infatti che l'articolo Un italiano antico nel mondo moderno non compaia nel 'Meridiano' e che al suo posto, nella sede cronologicamente appropriata, venga pubblicato l'anonimo articolo redazionale che annunzia la morte di Papini 7, null'altro che un banale dispaccio d'agenzia adeguatamente rivisto, come dimostra il confronto con il pezzo omologo apparso su "La Nazione Sera" lo stesso giorno. Ma non si tratta esattamente di una attribuzione sbagliata:


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l'errore è molto più banale. L'a1ticolo pubblicato sul 'Meridiano' appare infatti nell'edizione pomeridiana del "Corriere d'informazione" del 9-10 luglio 1956, affiancato da un necrologio di Papini firmato però da Orio Vergani: forse il copista non sospettava l'esistenza di una edizione notturna del giornale e, certo della presenza quel giorno e su quella testata di un articolo di Montale, ha pensato bene di attribuirgli il pezzo non firmato. La tipologia e la qualità dell'errore sono ben testimoniate dalla nota al testo dell'articolo presente sul 'Meridiano' 8, dove si fa riferimento alla ripubblicazione del necrologio firmato da Montale nel 1956 sul «Corriere della Sera» del 9 gennaio 1981, col nuovo titolo Quando c'incontrammo al Cinquale: riferimento esatto ad un testo che però nel 'Meridiano' non compare, e riferimento errato, dunque, rispetto al testo presentato.
   Tutto nasce, come si vede, da una serie di mancati riscontri, ma non solo: una lettura anche superficiale dell'articolo, (dove si riportano fra l'altro per intero i messaggi di cordoglio del Presidente Gronchi e di Segni) basta e avanza a cassarne la presenza in quella sede. Eppure l'autorevolezza del 'Meridiano' ha già fuorviato qualche critico.
   In attesa che una prossima riedizione delle Opere di Montale venga ad emendare l'errore, ci è parso utile ed opportuno ripubblicare, sia pur in questa modesta sede, il necrologio Papini. Un italiano antico nel mondo moderno, naturalmente, dall'edizione della notte del "Corriere d'informazione" 9.

Note


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Note

Luigi Corsetti, nato a Signa (Firenze) il 15 dicembre 1958, vive e lavora a Poggio a Caiano (Firenze). Dal 1996 ricopre il ruolo di Direttore della Biblioteca "F. Inverni" di Poggio a Caiano. Nel 1992 è fra i fondatori dell'Associazione Culturale Ardengo Soffici, nella quale, oggi, ricopre la carica di Vice Presidente. Dirige, in collaborazione con Marco Moretti, la collana di studi 'Quaderni Sofficiani'. Collabora alle riviste "Microstoria" e "Ambra".

Marco Attucci, nato a Firenze il 18 aprile 1959, vive e lavora a Poggio a Caiano (Firenze). Collabora alle pagine culturali del quotidiano fiorentino "La Nazione" e alla collana di studi 'Quaderni Sofficiani' edita dall'Associazione Culturale Ardengo Soffici di Poggio a Caiano.


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"Corriere d'informazione" (edizione della notte), 9/10 luglio 1956

Papini
Un italiano antico nel mondo moderno


Eugenio Montale

   Ho passato a Firenze vent'anni della mia vita senza mai avvicinare Giovanni Papini, e non mi risulta che egli desiderasse di accostarsi a me: il che sarebbe stato immaginabile (si parva licet), non per i miei meriti, ma perché io vivevo allora in una città di libri (lo storico Gabinetto Vieusseux) e non era pensabile che neppure quell'immenso divoratore di libri che fu Papini avesse potuto esaurire i fondi di uno sterminato emporio di libri moderni. Che cosa ci divideva? Non direi che fosse un diverso apprezzamento dei tempi in cui ci era toccato di vivere, o almeno non ricordo che questo fatto contasse molto per me. Forse ci separava soltanto un salto di generazione. Quanto duri una generazione letteraria non s'è mai saputo. Una volta si contavano le generazioni per quarto di secolo; oggi bastano pochi anni per creare una frattura. Quindici anni mi dividevano dallo scrittore che tanto avevo apprezzato per il Crepuscolo dei filosofi, per l'Uomo finito e per la collaborazione alla Voce e a Lacerba, e allora quei quindici anni mi parevano un abisso. Poi molto tempo dopo - quando già Firenze era diventata per me un sogno e una nostalgia - incontrai Papini in una pineta presso il Cinquale e dovetti accorgermi che il famoso salto "generazionale" di cui parla qualche giovane critico per noi non esisteva più.
   Qualcosa di nuovo era accaduto: o ero molto invecchiato io, o Papini era riuscito a fondere in un solo crogiuolo i vari e discordanti aspetti della sua ricca personalità. Resta così il fatto che l'immagine di un Papini che scorra lungo tutto il filo della sua vita (e della mia) io non potrò mai darla. Fino a ieri due Papini esistettero per me: il giovanile
Sturmer und Dranger che va all'ingrosso dal Tragico Quotidiano all'Uomo finito o il Giobbe degli ultimi anni, l'uomo che in mezzo a inenarrabili sofferenze quasi chiede a Dio di metterlo a una prova sempre più dura. Il Papini di mezzo, l'uomo semplice con cui si


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poteva parlare di tutto da uomo a uomo, io non potei intravvederlo che in un incontro che restò anche l'ultimo. Quando, un anno dopo, io ebbi a rivederlo nella sua casa, a Firenze, Papini era già un uomo murato vivo; era già cominciato per lui quel supplizio che ha riempito tutto il mondo - e non solo il mondo letterario, che conta poco - di stupore e di reverenza. Forse solo oggi gli uomini che come me hanno conosciuto più il Papini scrittore che il Papini uomo, potranno chiedere alle sue pagine di rivelarci pienamente il segreto della sua umanità.
   L'ipotesi a cui sto accennando: che siano esistiti due Papini, l'Erostrato e il convertito, e che ad essi corrispondono due fasi letterarie molto diverse, dovrà essere confermata o smentita in sede di critica letteraria, e questo non è il momento per accingersi a imprese del genere. Ma, come tutte le ipotesi grossolane, essa spiega qualcosa della sorte ch'è toccata a Papini: di essere avversato, ma in certo senso indiscusso in gioventù, e di incontrare più tardi, nella sua piena maturità, una fama che sembrò in contraddizione con la sua primitiva riputazione di scrittore antiborghese, di autore «maledetto». Papini aveva trent'anni quando Serra scriveva dell'
Uomo finito: «Non si dice che è un bel libro perché è di Papini»; e il giudizio di un Serra basta da solo a provare che il primo Papini fu veramente, come dicemmo, avversato e indiscusso. Fu un giudizio che fece testo; e ancora parecchi anni dopo ne ritroviamo un'eco in Gobetti che scrive un elogio della Storia di Cristo mentre intorno a Papini già ferve la polemica e l'autore delle Stroncature perde qualcuno dei suoi vecchi ammiratori senza trovarne molti che siano veramente di suo gusto. Dal '21 in poi si può dire che Papini uscisse dal novero degli autori d'eccezione per trovare un vasto pubblico. È il periodo di quell'apparente «ritorno all'ordine» che allo scrittore dette forse una eguale misura di gioie e di insoddisfazioni. In realtà il nuovo mondo che accoglieva Papini non aveva dimenticato i suoi trascorsi giovanili, e sull'ortodossia (che pur fu sincerissima) dello scrittore talvolta fu levato qualche dubbio. Tanto che quando usci il suo Diavolo - nel '54 - io potei scrivere che «sei lustri di buona condotta non erano bastati, evidentemente, a farlo includere fra gli autori di 'tutto riposo'».
   E a questo punto mi si fa chiaro che fu proprio il Papini incapace di essere «di tutto riposo» l'uomo che mi si rilevò nella pineta di Cinquale,



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l'uomo col quale iniziai un dialogo che restò interrotto quel giorno stesso. È, questo, il Papini che lega insieme le sue varie fasi e maniere: il Papini per il quale non si può più parlare di un prima o di un dopo: il Papini che, in un senso molto alto, vorremmo dire ingenuo, fiabesco, infantile. Forse sarebbe meglio dire: il Papini romantico e inguaribilmente italiano.
   Italiano integralmente, e perciò antico nella Firenze del 1906. Con Papini nasce, o meglio rinasce in una città che già stava aprendosi al dannunzianesimo, quella prosa di schietto stampo nostrale che poi tutti gli scrittori della
Voce si sforzarono di imitare. Per lui e per Panzini il Serra parlò di Carducci, volendo indicare uno sfondo classico che nella Firenze di prima mancava o era solo classicheggiante. Certo il balzo da Nencioni a Papini, Prezzolini e Soffici mostra che all'europeismo della Voce faceva riscontro la scoperta di una più antica Italia. Se è vero, come ci sembra, che molte pagine del Tragico Quotidiano, del Pilota cieco e delle Buffonate, su su fino all'Uomo finito e alle Cento pagine di poesia fanno pensare a Rosai e al quattrocento toscano, non ci stupirà più dello strano modernismo di uno scrittore che mentre respinge insieme il positivismo e l'idealismo porta alle ultime conseguenze la crociana distruzione dei generi letterari. È un'ebbrezza che dura pochi anni e che pure dà alla letteratura italiana dei tempi della Voce un sapore inconfondibile. Nasce un'arte di sfogo, di diario e di confessione che non è racconto, non è lirica, non è saggio filosofico, ma che pure ha il colore dell'arte, ha la felicità di un frutto nato in un tempo felice. In Papini questa felicità di espressione non si esaurì nei primi anni, e restò come uno sfondo dei suoi libri più severi, quando lo scrittore si trasformò in severo agiografo e storico. In altri divenne maniera. E ciò si fece sempre più evidente quando le nuove generazioni dovettero continuare l'opera che la Voce aveva iniziato: una riscoperta dell'Italia attraverso l'Europa. Il primo risultato fa che i «generi» - teoricamente distrutti - riaffermarono la loro empirica ma indiscutibile fertilità.
   Nessun romanziere venne fuori dal gruppo della
Voce ma lo stesso Papini si volse per un attimo alla lirica in versi duri e squadrati - versi da muro a secco -; ma non contento o non incoraggiato su questa via si accinse poi a quelle opere di largo respiro (L'Uomo Carducci, Dante vivo, un primo volume di Storia della Letteratura Italiana, il


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Sant' Agostino, Le Lettere agli uomini del Papa Celestino VI, la Vita di Michelangelo, il Diavolo ed altre ancora) che hanno fatto di lui uno dei più brillanti essaysts della nostra moderna letteratura. Potremmo dunque dire che gli mancò un definitivo genere letterario? Sarebbe ingiustizia verso il prodigioso autodidatta che conosceva come pochi la letteratura universale e che non ignorava ciò che «il saggio» ha prodotto da Addison in poi. Resta però vero che a un certo punto il fondamentale ottimismo ottocentesco di Papini, il classico equilibro ch'egli per anni si sforzò di nascondere, la sua fede che in un mondo ultraterreno tutti i dissidi saranno composti nella luce del Vero, parve in contrasto con l'apparente nichilismo di una generazione che scopriva Kierkegaard e la lirica «pura», il romanzo d'analisi e il dramma elisabettiano: una generazione perduta, bruciata, veramente maledetta, eppure più vicina a Dio di quanto Papini avrebbe potuto supporre.
   Ma di quale Papini parliamo ora? Non c'è dubbio: di quello precedente alla
Via Crucis che resterà ormai unita per sempre al suo ricordo. Al Papini, insomma, che non amava Kafka, forse perché ne era troppo turbato. Ma sono certo che un Papini libero miracolosamente dal muro che ormai io stringeva nella sua morsa di calce, un Papini ritornato alla vita dopo la morte terrestre, avrebbe compiuto l'ultimo passo o avrebbe compreso che il monito «Non giudicate» (la grande scoperta del Cristianesimo) è vivo tanto nella sfera estetica che in quella morale. Con questa fiducia, in questa certezza, il vecchio e il nuovo Papini, nel nostro ricordo, nel nostro rimpianto, si fondono in una figura unica, insostituibile, a cui tutti dobbiamo qualcosa di noi stessi.


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